Sguardi perplessi tra noi
due combattenti e reduci veterani della scrittura e del cartaceo.
E’ vero che il cartaceo (libri, foto, ecc.) l’hai sempre sottomano
- se ti ricordi dov’è - e lo guardi senza bisogno di accessori
elettronici. Ma è altrettanto evidente che il PC, i CD, i
DVD sono ormai di uso corrente e che i giovani, e anche i meno giovani,
li maneggiano normalmente. Discussioni, polemiche e infine il compromesso:
sta bene il DVD-storico accompagnato però da un "saggio
scritto!" E se c’è da scrivere chi meglio del "prufesùr"?
Solita pazienza e comprensione dell’Ezio Meroni, solita generosa
gratuità, incontri con l’Andrea Stabile, mago dell’informatica,
e alla fine ecco qui il DVD integrato dal "saggio" scritto.
I festeggiamenti per il 50° della Stella Azzurra sono ora quasi
completati: album delle figurine, splendida maglietta polo, targa
commemorativa, locandina di presentazione, medaglie al merito, spettacolo
di animazione con l’Oratorio San Luigi, la prima squadra di calcio
promossa in 2a Categoria, progetto in corso per la ristrutturazione
degli spogliatoi, dieci squadre di calcio, quattro di volley, il
Giocasport"!
Arrivederci, se Dio vorrà, nel 2031 per il 75°.
Il Presidente
Luigi Sala
P.S. I ringraziamenti
sono sottintesi. Alla Stella sono in tanti, tantissimi che generosamente
danno una mano senza richiedere riconoscimento alcuno.
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Ezio Meroni
«El balùn
l’è rutùnd».
Un concetto che esprime, in tutte le lingue e a ogni
latitudine, la magia del calcio. Dove il valore del singolo si realizza
nel collettivo e la superiorità nelle individualità
di squadra non garantisce la vittoria. Dove il caso si materializza
in un gol mancato o subito per centimetri, in un rimpallo malandrino
o provvidenziale, in un ciuffo d’erba che cambia all’ultimo momento
la traiettoria del pallone facendolo terminare in rete o mestamente
oltre la linea di fondo.
Una magia che rinnova a suon di calci, colpi di testa e corse l’eterna
sfida tra Davide e Golia, dove l’imponderabile non di rado riesce
ad armare la fionda del più piccolo per sconfiggere il gigante.
A chi gli augurava prima di una partita: «Vinca il migliore»,
il Paròn Nereo Rocco mitico allenatore tra gli anni Cinquanta
e Settanta - rispondeva nel suo pittoresco dialetto triestino: «Ciò,
sperémo de no!».
Non era un cinico, né uno sciocco che si affidava ciecamente
alla fortuna. E tanto meno un progenitore di quelli che oggi fanno
parlare più le cronache giudiziarie di quelle sportive. Ma
un vecchio saggio abituato a rimboccarsi le maniche in squadre di
provincia i poaréti - con il bilancio da quadrare valorizzando
qualche bòcia del vivaio, rigenerando talenti incompresi o
acciaccati e allungando la carriera a vecchi marpioni sul viale del
tramonto.
Fu la magia di quel calcio ruspante a far sognare i fondatori della
Stella Azzurra e i suoi primi atleti, quando la televisione muoveva
i primi passi e la moviola e i vari ‘processi’ non erano ancora arrivati
a turbare il sonno di milioni di sportivi. Le partite bisognava ricostruirle
leggendo le cronache dei giornali.
Nei caffè, in fabbrica, a scuola e all’oratorio le discussioni
si infiammavano attorno a un aggettivo, un verbo, una frase, lasciando
alla passione e alla fantasia lo spazio e il piacere di ridisegnare
a loro immagine e somiglianza le sfide del campionato che, almeno
allora, sembrava il più bello del mondo.
Una magia che resiste a dispetto dei cambiamenti delle tattiche, dei
metodi di preparazione, dei materiali e persino delle trasmissioni
televisive che sviliscono il calcio con ben remunerate risse, pettegolezzi
e finte polemiche.
Oggi come ieri, dovunque un pallone cominci a tracciare i suoi fantastici
arabeschi sospinto dal furore agonistico dei contendenti, si rinnova
la magia del calcio, che per gli atleti e il pubblico è essenzialmente
la ricerca del gol. L’apice della felicità e l’abisso dello
scoramento.
La sfida dei fondatori
Un pallone sgonfio è qualcosa di poco attraente, da gettare
lontano con una distratta pedata. Ma se riceve dall’uomo il soffio
vitale, allora prende forma, rotola, rimbalza, diventa un oggetto
così affascinante da accendere l’agonismo e la fantasia di
intere generazioni.
In quel lontano 1956 - quando el balùn era di un solo colore
e i giocatori calzavano scarpette rigorosamente nere con i birö,
con i tacchetti di cuoio; quando si andava in trasferta in bicicletta
o in tram e la doccia calda al termine di una partita era una rarità
– i fondatori della Stella Azzurra si resero conto che in oratorio
la magia del balùn non poteva bastare.
El Pèpp, l’Arnaldo, el Luciano e il don Luigi Pozzi non erano
degli intenditori di calcio. Forse proprio per questo riuscirono a
cogliere la sfida del balùn e trovarono il coraggio di aprire
quella sfera magica per cercarvi l’essenza del soffio vitale. Scoprirono
allora che era qualcosa di più grande e complesso dell’aria
che lo gonfiava. Era la somma delle passioni, dei sogni, dell’entusiasmo
e dei sacrifici di tutti quei ragazzini che sgambettavano su un campo
da calcio, dai più bravi ai püssé broch, ai più
scarsi. Anzi, soprattutto di questi ultimi.
«Mìla cumìncen, dumà vun el rièss.
Mille cominciano, uno solo fa carriera». E gli altri?
Ecco la grande sfida del balùn. La rivoluzione copernicana
che anteponeva alla vittoria la gioia dei ragazzi, al primato l’attenzione
alla loro crescita come singoli e come gruppo. Non cercavano campioni
– quell’incombenza la lasciavano ai tecnici delle altre squadre –
ma momenti di aggregazione sportiva ed educativa per i giovani. Se
non potevano diventare campioni nel calcio, dovevano essere aiutati
a diventarlo nella vita e magari anche a crescere nella fede.
El balùn l’è rutùnd anche e soprattutto fuori
dal campo. Lo sapevano bene quei pionieri e glielo ricordavano ogni
giorno le infinite sfide giocate in tutte le categorie dell’eterno
campionato dell’esistenza: un bravo ragazzo, uno studente diligente,
un lavoratore serio, un marito rispettoso e fedele, un padre amorevole
e responsabile, un nonno capace di raccontare con il sorriso sulle
labbra questa meravigliosa avventura ai propri nipoti.
La sfida degli altri
sport
In mezzo secolo, insieme al calcio, hanno segnato la storia della
Stella Azzurra anche il basket e il volley.
Qualche tentativo di allargare l’offerta sportiva c’è stato.
Restano famose le due edizioni delle Olimpiadi negli anni Cinquanta.
Ma l’atletica non ha attecchito. Come il ping pong. E neanche il ciclismo,
il tifo rovente per Coppi o Bartali, ha fatto breccia nel cuore dei
giovani oratoriani, almeno a livello agonistico. Con buona pace del
Pèpp e del don Luigi Pozzi, che sognavano una Polisportiva.
In oratorio lo sport ha bisogno di ingredienti particolari, altrimenti
perde la sua valenza educativa. Il primo resta sempre el balùn,
o comunque una palla, con il suo fascino dell’imponderabile. Poi è
necessario che a giocarci non sia un singolo, ma una squadra, un gruppo
di giovani che, prima di essere atleti, siano amici e compiano assieme
un cammino di crescita. Far parte di una squadra significa entrare
in una comunità sportiva, con le proprie dinamiche, il proprio
linguaggio, la propria specificità, la propria solidarietà
umana e agonistica.
L’imponderabile appartiene comunque alla magia della sfera: la palla
che all’ultimo secondo tocca il ferro, vi ruota attorno e poi entra
o esce distribuendo felicità o disperazione tra i cestisti.
La palla che, dopo una schiacciata all’ultimo punto del tie-break,
resta in campo o esce per un nonnulla, assegnando la vittoria o la
sconfitta.
E’ la sfida del balùn che si ripropone sotto diverse forme
e che, per esprimersi, ha bisogno di un gruppo che giochi, si alleni,
sudi e cresca insieme, dentro e fuori lo spogliatoio, lasciando a
ciascuno la possibilità di esprimere se stesso.
La sfida dei sacerdoti
Quanti preti hanno passeggiato sotto il porticato dell’oratorio San
Luigi… Quéi che capìven poch o nient de balùn,
quelli che capivano poco o niente di calcio; quelli che ne discutevano
con i ragazzi fingendo di accalorarsi per la loro squadra; quelli
che non esitavano a mettersi in calzoncini corti e scarpette e ci
davano dentro nelle sfide domenicali e nel torneo serale.
Vivere la magia e la sfida del balùn da sacerdote deve essere
un’esperienza straordinaria. Il suo terreno di gioco sono le menti
e i cuori dei ragazzi, dei giovani, degli adulti e delle famiglie
che questo sport mette accanto a loro. Sono tante partite che si giocano
contemporaneamente e lui, con o senza i calzoncini corti, è
chiamato a stare nel vivo del gioco, sapendo che comunque il gol non
sarà lui a segnarlo ma un Altro, ben più grande e importante.
Lui deve preparare l’azione, curare i passaggi, suggerire la posizione,
sanzionare qualche fallo… Il piccolo universo che si muove attorno
a lui è il campo dove un Altro ha seminato. Lui per vocazione
deve coltivarlo, sapendo che non tutte le zolle saranno produttive
alla stessa maniera e nello stesso momento. Ma lui, direbbero gli
opinionisti di oggi, è un calciatore universale che si muove
a tutto campo: attacca, difende, si smarca, detta il passaggio, s’invola
sulla fascia, crossa, entra anche duro quando è necessario.
E soprattutto, direbbero i cronisti di un tempo, ha sette polmoni:
corre, suda, sbuffa e non si stanca mai. Gioca tante partite, partecipa
a tanti campionati, consapevole del suo destino che non lo vedrà
mai tra i marcatori. Il bomber è un Altro, molto più
grande e importante di lui. Quando viene realizzato un gol gioisce,
perché spesso nell’azione c’è anche il suo zampino.
Un passaggio, o magari l’assist decisivo, l’ha fatto proprio lui:
in una notte di stelle al campeggio, nel segreto di un confessionale,
una domenica sera in oratorio quando tutti se ne erano andati a casa,
o semplicemente con un sorriso o una pacca sulla spalla.
Ma anche per il prete el balùn l’è rutùnd, perché
nella partita della vita si possono incontrare situazioni critiche:
brutti infortuni, pesanti sconfitte, falli da tergo, espulsioni, squalifiche
e squadre sbagliate dove andare a giocare.
Qualche volta è costretto anche a estrarre il cartellino giallo
o magari anche il rosso, ma nei suoi occhi c’è una luce che
dice: «Guarda che mi ci hai costretto. Lo faccio per il tuo
bene e comunque sono sempre qui a tua disposizione».
In quei casi sa aspettare pazientemente in panchina, perché
i suoi tempi, spesso e volentieri, non coincidono con quelli di chi
lo ha chiamato a essere sacerdote. Così si arma di fede e di
pazienza… e aspetta. In fondo non disdegna gli assist in zona Cesarini,
o magari anche ai tempi supplementari.
La sfida degli allenatori e dei dirigenti
In quei lontani anni Cinquanta i concetti fondamentali erano pochi:
cuminciàven e finìven j stéss vündes, cominciavano
e finivano gli stessi undici; nessuna sostituzione, nànca el
purtér, neanche il portiere, e uno schema solo: «Palla
lunga e pedalare». Quelli che non giocavano dovevano aspettare
la domenica successiva per entrare in campo, accontentandosi per quel
giorno di andare su e giù lungo la linea laterale con la bandierina
in mano.
Bei tempi! Si partiva la mattina presto mettendo i soldi per le trasferte
o caricando sulla canna della bici un amico che voleva assistere alla
partita.
Li muoveva la passiùn per el balùn e per i bagàj,
la passione per il calcio e per i ragazzi. Allenamenti problematici
perché non c’era l’impianto di illuminazione. Poche parole
nello spogliatoio prima della partita. Qualche scappellotto sulla
testa come rimprovero o incoraggiamento – anche il linguaggio gestuale
era essenziale – un «Bravi tutti!» alla fine della partita,
comunque fosse andata. Erano persone semplici, che insegnavano con
l’esempio qualcosa del balùn e molto della vita. Le parole,
quelle giuste perché aveva studiato, ce le avrebbe messe il
prete…
Oggi è cambiato ben poco: stessa voglia di stare in mezzo ai
giovani e di dare assieme a loro quattro calci al pallone – il termine
in italiano è di rigore nella categoria, perché l’uso
del dialetto è riservato a pochi eletti che occupano gli scanni
più elevati nella Stella Azzurra – stessa attenzione ai püssé
bròch, stessa fiducia nella collaborazione con il prete, perché
i ragazzi è già difficile dirigerli sul campo, figurarsi
fuori!
Anche loro però hanno dovuto rendersi conto che el balùn
l’è rutùnd come mai devono fare i conti con un interlocutore
in più: i genitori. Certe volte bisogna spiegare anche ai padri
e alle madri perché il loro figliolo sta in panchina o ha cambiato
ruolo. E magari dopo una partita persa all’ultimo minuto o una sconfitta
pesante verrebbe voglia di… (ri)mandarli… a un altro momento quei
concetti tecnici, ma si sforzano di assecondare le esigenze dei famigliari.
Un impegno ricco di fascino, tanto da coinvolgere in un rapporto degno
della migliore tradizione di don Milani a Barbiana, molti ragazzi
che ricoprono un doppio ruolo: giocatori nella loro categoria e allenatori
per i più giovani.
Apprendere e insegnare. Anzi: sperimentare la difficoltà dell’insegnare
non la tecnica calcistica, ma l’educazione e il rispetto delle persone
e delle regole. Un’esperienza che fa crescere in fretta e bene.
La sfida dei genitori
Avevano altro da fare quando è nata la Stella Azzurra. Gli
uomini lavoravano anche il sabato e magari la domenica mattina, per
arrotondare lo stipendio. Le donne stavano a casa, perché i
figli erano più di uno e si faceva tutto a mano: dal bucato
al minestrone. Nel tempo libero gli uomini si ritrovavano al caffè
o al circolo, magari per andare a vedere la partìda de balùn,
la partita di calcio. Alle donne bastavano una sedia e un angolo del
cortile.
Anche per i genitori el balùn è cambiato parecchio in
questo mezzo secolo. Adesso seguono i loro figli in casa e in trasferta
e frequentano l’oratorio. Durante le partite trepidano, tifano e vivono
la loro speciale sfida del balùn: accompagnare i sogni dei
loro rampolli con discrezione e realismo, consapevoli che l’investimento
più importante non è quello sportivo.
Loro devono scendere in campo nella sfida educativa e meglio di altri
capiscono che el balùn l’è rutùnd, perché
hanno affidato al sacerdote, agli allenatori e ai dirigenti una parte
dell’allenamento alla vita dei propri figli. Insieme lavorano per
far capire ai ragazzi – e magari scoprire essi stessi – che nel cuore
di ogni uomo Dio ha segnato un gol e attende che l’interessato se
ne accorga ed esulti insieme a Lui.
La sfida degli atleti
Che idea grandiosa l’album con le foto degli atleti della Stella Azzurra
nell’anno del Cinquantenario!.
A quel tempo, e per molti anni ancora, il sogno di ogni ragazzino
che calzava le sue prime scarpe da calcio era di diventare “uno delle
figurine” e poi indossare la maglia azzurra della nazionale. Allora
c’era solo un album, con tutti i calciatori fotografati rigorosamente
di mezzobusto, alcuni anche un po’ sfuocati. Ma non importava. L’album
della Panini era una reliquia da conservare meglio dei libri di scuola.
Le figurine si attaccavano con la colla di pasta bianca e il pennello,
badando a non lasciarne traccia perché altrimenti si sarebbero
incollate le pagine. Lo si sfogliava ogni giorno imparando a memoria
nomi, luoghi e date di nascita dei calciatori. Gli scambi si svolgevano
all’oratorio o a scuola - anche in classe e magari durante le lezioni,
con il rischio di vedersele requisire dagli insegnanti, che allora
si occupavano poco di sport, o almeno così facevano credere
– ed erano più impegnativi di una seduta di borsa.
Volti di personaggi che prendevano vita. Con i più famosi "i
campioni, gli oriundi e i fuoriclasse stranieri "si riusciva
persino a imbastire qualche fantasiosa conversazione, tanto era forte
il desiderio di avvicinarli, di conoscerli.
Oggi il sogno rimane inalterato, anche se il mito del campione lontano
e inarrivabile si è dissolto nelle quotidiane rivelazioni della
stampa, nei servizi proposti dai vari channel, nei siti Internet gestiti
dalle squadre o dai tifosi. Dei grandi si sa tutto, ma volendo si
può conoscere vita morte e miracoli, non solo calcistici, persino
di una riserva o di un giovane di belle speranze.
Ma la voglia dei ragazzini di rincorrere el balùn rimane la
stessa, anche se calzano scarpette che sembrano uscite dalla bottega
di un calzolaio folle: metà da marziano e metà da giullare.
Per fortuna i piedi non vedono, ma agiscono in base alla loro sensibilità,
così continuano a guidarle verso il magico impatto che scaraventa
el balùn in fondo alla rete, regalando il brivido del gol.
La felicità in un attimo. L’essenza del calcio condensato in
un gesto.
Anche per loro el balùn l’è rutùnd: la dolce
incoscienza del sogno per moltissimi finisce alle prime partite ufficiali,
perché i bagàj hinn minga stüpid, i ragazzi non
sono stupidi. Si rendono conto dei propri limiti e allora si lasciano
guidare dalla passione, che non conosce ostacoli e sa porsi piccoli
traguardi capaci di far apprezzare la tensione agonistica e la gioia
della vittoria anche nei campionati minori. Quella passione che consente
a tutti di tornare a casa stanchi e con qualche livido dalla moglie,
dai figli o dai genitori e raccontare – a modo proprio, come un telecronista
di parte – quell’azione, quel fallo, quel tiro, quel fuorigioco, quel
gol.
Ciò che non hanno avuto la fortuna o il merito di trovare in
stadi famosi e davanti alle grandi folle, lo assaporano nel sale della
vita quotidiana: una pizza in compagnia, una riunione, una vacanza
in gruppo, l’incontro con l’amore. Non ci sono i riflettori? In fondo
è meglio. Abbagliano, aumentando il rischio di prendere qualche
cantonata. E non sempre il prete può arrivare dappertutto con
i suoi assist.
I vincitori della grande sfida del balùn sono loro, perché
conservano la passione e la voglia di corrergli dietro e di prenderlo
a calci, in attesa del traguardo più bello: tornare e varcare
il cancello dell’oratorio tenendo per mano i loro figli o nipotini
vestiti da calciatori, orgogliosi di sapere che il loro sogno sta
rinascendo.
«Perché el balùn
l’è rutùnd».
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